Sara Bianchi

Sceneggiatrice - Story editor - Regista

Hamburger Sara Bianchi: regista, story editor, sceneggiatrice Torino

DA CONTEMPORANEA: “PREPARATIONS TO BE TOGETHER FOR AN UNKNOWN PERIOD OF TIME”

Drama - Romance | 2020 | 95 min

Pubblicato su Agenda del Cinema a Torino | 10 Ottobre '22

La solitudine dell’autoinganno

La recensione potrebbe contenere spoiler

Vizy Márta, una brillante neurochirurga ungherese, lascia gli Stati Uniti e l’ospedale del New Jersey in cui lavora per tornare a Budapest. Dopo aver sistemato il bagaglio a mano in una camera d’albergo, raggiunge il Ponte della Libertà e attende, invano.
La ragione per cui Márta è tornata nella sua città natale è il collega Drexler János, neurochirurgo incontrato durante una conferenza e con il quale, dopo una giornata trascorsa insieme, si erano romanticamente dati appuntamento proprio su quel ponte, in quel giorno e a quell’ora.

Delusa dal mancato appuntamento, la protagonista decide di andare a cercare János, ma quando i due sono finalmente l’uno di fronte all’altra lui non la riconosce. Márta, però, non riesce ad abbandonare l’idea del suo idillio d’amore e comincia un ossessivo pedinamento dell’uomo che si trasforma lentamente in quello che sembra, a tutti gli effetti, un autoinganno: la donna si convince che tutto ciò che riguarda János sia frutto della propria immaginazione.
Proiettato in anteprima durante il Contemporanea International Film Festival e presto nelle sale, Preparations to be together for an unknown period of time dell’ungherese Lili Horvat è un claustrofobico viaggio introspettivo che si attorciglia nella labirintica ricerca di un’idea di amore.

Le parole attorcigliarsi e labirintico non sono casuali. In un film in cui ogni singolo elemento, dagli ambienti ai costumi ai movimenti, racconta ed esprime lo stato d’animo della protagonista, i corridoi a spirale, le infinite scale a chiocciola e gli ambienti vasti e dispersivi sono dominanti e hanno sempre un preciso significato.
Incastonata in un’estetica quasi pittorica e spesso immobile, la protagonista vive la propria ossessione. All’inizio si tratta semplicemente della delusione per il rifiuto, János non solo non la riconosce, ma sembra non voler avere niente a che fare con lei. Ben presto, però, si insinua l’inganno della solitudine. Márta è davvero innamorata di quest’uomo? Oppure è ossessionata dall’idea di un amore impossibile e irrealizzabile che colma un vuoto di cui non sembra accorgersi, tanto concentrata com’è a raggiungere l’oggetto del suo desiderio. Eppure, giorno dopo giorno, Márta esiste e noi la seguiamo lasciandoci avvolgere da un senso di inquietudine e di prigionia tanto reali quanto privi di concretezza.

L’unica vera prigione che trattiene Márta dal vivere appieno la propria vita, infatti, è una testarda forma di autoinganno. Prima quello di aver trovato l’anima gemella, poi quello di essere innamorata, infine la convinzione di non poter appartenere all’uomo che ama. È questo stesso tema, inoltre, a muovere tutti i personaggi del film. Ognuno di loro, in un modo o nell’altro, agisce sulla base di proprie convinzioni arbitrarie e autoimposte. Significativa è la scelta dell’autrice di collocare la storia all’interno del reparto neurologico di un ospedale. La protagonista, in quanto neurochirurga, dovrebbe avere il pieno controllo del proprio cervello, dovrebbe saperne riconoscere il funzionamento, eppure arriva a sperare di avere un disturbo della personalità pur di non ammettere a se stessa di essere in preda all’ossessione e di aver vissuto una semplice e innocente illusione. Il costante girare intorno dei personaggi che si agitano senza mai uscire dal perimetro della propria interiorità, è paradossalmente restituito attraverso la staticità di una narrazione lenta e spesso addossata ai volti dei personaggi per lasciare lo spettatore senza respiro o via di fuga.

Quello della Horvat è un film di gesti e sguardi. È un film in cui la solitudine si fa silenzio e spazio. Spazi sempre vuoti, come l’appartamento della protagonista che sembra non voler mettere radici e preferisce restare sospesa. Silenzi che lungo tutto il film aprono la via all’incomprensione. Incomprensione spesso forse voluta per protrarre il gioco, l’attesa, la preparazione dell’amore. Emblematico, in tal senso, è il primo vero incontro tra i due amanti.

Márta esce dall’ospedale e ad attenderla, sul marciapiede di fronte, c’è János. Lei, però, non attraversa la strada. Prende a camminare sul proprio marciapiede e lui la segue. Camminano, i due, attraversando la città, l’uno accanto all’altra. A dividerli sempre una strada. Questa scena racchiude con eleganza e poesia quello che sembra voler essere il cuore del film: due anime che camminano parallele perché è l’unico modo che hanno per poter stare insieme, senza conoscersi davvero, senza appartenersi o doversi dare l’uno all’altra. Eppure, il film dimostra, minuto dopo minuto, di voler scardinare questo stesso assioma dimostrando che basta liberarsi dai propri autoinganni e osservare la realtà per quella che è, per scoprire che l’unico limite alla realizzazione dei nostri desideri siamo noi stessi.

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